Abuso edilizio lungo la sponda del torrente: non sempre c'è il reato paesaggistico
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In tema di beni paesaggistici e di aree svincolate dalla disciplina prevista dal “Codice dei beni culturali e del paesaggio” (Decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42), è intervenuta un’interessante sentenza del Tribunale di Belluno (29 novembre 2019 n.879, depositata il 20/12/2019), che ha ripreso principi già affermati nella giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, Sezione V, 17 maggio 1996, n.1563) per assolvere i comproprietari di un immobile ubicato entro la fascia di 150 metri dal corso di un torrente, che vi avevano eseguito un intervento di sopraelevazione in assenza dei necessari provvedimenti autorizzatori.
I fatti:
I cinque soggetti coinvolti erano imputati dei reati previsti e puniti dagli artt. 44, comma 1 lett. c) D.P.R. 380/2001 (T.U. Edilizia) e 181 d.lgs. 42/2004 (Codice dei beni culturali e paesaggio), perché, nelle loro qualità di comproprietari, realizzavano, sull’immobile sito in zona sottoposta a vincolo paesaggistico-ambientale, interventi edilizi urbanistici in assenza del prescritto permesso di costruire o di D.I.A. ai sensi dell'articolo 22 comma 3 del D.P.R n. 380/2001, oltre che in assenza della prescritta autorizzazione paesaggistica; più precisamente demolivano totalmente e ricostruivano, sopraelevandolo, il tetto dell'edificio, trasformando il piano sottotetto da soffitta in unità abitativa. La suddetta zona rientrava, secondo l’accusa, tra quelle sottoposte a vincolo paesaggistico-ambientale, in quanto si trattava di un’area posta entro la fascia di 150 m dal corso di un torrente (area tutelata ai sensi dell’art. 142, comma 1, lett. c) del d.lgs. n. 42/2004).
La normativa di interesse:
In effetti il primo comma dell’art. 142 d.lgs. 42/2004 elenca una serie di territori e di aree di interesse paesaggistico, all’interno delle quali gli interventi edilizi ed in genere di trasformazione del territorio devono essere preceduti dalla specifica autorizzazione dell’autorità preposta alla tutela dei beni paesaggistici.
Tra queste, alla lettera c), compaiono i fiumi, i torrenti, i corsi d’acqua e le relative sponde o piedi degli argini per una fascia di 150 metri.
Dalla lettura del primo comma dell’articolo in esame la zona su cui sorge l’immobile de quo risulterebbe quindi rientrare tra le aree di interesse paesaggistico; ne deriverebbero le severissime conseguenze di seguito elencate:
- il reato urbanistico edilizio commesso all’interno di queste aree viene punito ai sensi della lettera c) del primo comma dell’art.44 del DPR 380/2001, quella che prevede le sanzioni più pesanti (l'arresto fino a due anni e l'ammenda da 15.493 a 51.645 euro).
- Ad esso si aggiunge l’ulteriore reato previsto dall’art.181 del Decreto Legislativo n.42 del 2004, sanzionato con la medesima pena (o addirittura più gravemente quando si tratti di interventi importanti).
- Inoltre, quando l’intervento abusivo ha comportato un incremento di volumi o di superfici utili (come è avvenuto nel caso di cui si è occupato il Tribunale di Belluno), non è ammessa la cosiddetta sanatoria.
Tale istituto, quando sia ammesso, comporta l’estinzione del reato edilizio-urbanistico e la non punibilità per quello paesaggistico; esso scatta, su iniziativa degli interessati, quando l’Autorita` preposta alla tutela dei beni vincolati accerti che l’autorizzazione - qualora fosse stata richiesta prima di eseguire i lavori - sarebbe stata rilasciata, in quanto i lavori medesimi non avrebbero pregiudicato i valori paesaggistici dell’area.
Quando l’accertamento si conclude in tal modo e la cosiddetta sanatoria paesaggistica viene quindi rilasciata non vi è punizione per il reato paesaggistico e si creano i presupposti per sfuggire alla pena anche per il reato urbanistico, grazie alla cosiddetta sanatoria edilizia, ottenibile quando l’intervento abusivo sia comunque conforme alla normativa urbanistica vigente all’epoca dei fatti e all’epoca della domanda di sanatoria (cosiddetta doppia conformità).
Come detto, però, la sanatoria paesaggistica, quando gli interventi abbiano comportato un aumento dei volumi o delle superfici utili, non è ammessa, anche se si tratti di lavori per i quali l’autorizzazione, se chiesta prima della loro realizzazione, sarebbe stata rilasciata. Le pene previste per i due reati in esame debbono quindi essere necessariamente applicate anche in questo caso. - Oltre alle pene sopra ricordate, la condanna per il reato paesaggistico comporta pure l’obbligo di demolizione di quanto abusivamente realizzato.
In conclusione quindi, nel caso trattato dal Tribunale di Belluno, il fatto che si trattasse di un intervento che sarebbe stato autorizzato qualora lo si fosse richiesto prima di eseguirlo non avrebbe comunque consentito di evitare la condanna alle pene sopra ricordate e al ripristino della situazione sussistente prima dei lavori, quindi all’abbassamento del tetto al livello precedente; solo successivamente i proprietari sarebbero potuti ripartire da capo, con una nuova domanda, per rifare in toto l’intervento.
Tali drammatiche conseguenze possono essere evitate quando ricorrano le condizioni di cui al secondo comma dell’art.142 che, dopo aver elencato le zone e le aree di regola soggette al vincolo paesaggistico (e tra queste le sponde dei corsi d’acqua per una fascia di 150 metri), prevede alcune situazioni in cui esse invece vi sfuggono.
Vi si legge infatti che le disposizioni di cui al comma 1 non si applicano alle aree che alla data del 6 settembre 1985 (data di entrata in vigore della legge 8 agosto 1985, n. 431, cosiddetta “Legge Galasso”):
a) erano delimitate negli strumenti urbanistici come zone territoriali omogenee A e B;
b) erano delimitate negli strumenti urbanistici come zone territoriali omogenee diverse dalle zone A e B, limitatamente alle parti di esse ricomprese in piani pluriennali di attuazione, a condizione che le relative previsioni siano state concretamente realizzate;
c) nei comuni sprovvisti di tali strumenti, ricadevano nei centri edificati perimetrati ai sensi dell’art. 18 legge 22 ottobre 1971, n. 865.
Le due tesi difensive:
La difesa è stata articolata su due argomentazioni, entrambe volte a dimostrare che la zona nella quale era stato realizzato l’abuso rientra tra quelle enunciate dall’art. 142, comma 2, d.lgs. 42/2004, per le quali non opera la normativa a tutela dei beni paesaggistici.
Secondo la prima tesi difensiva il vincolo paesaggistico non sussiste in virtù dell’art. 142, comma 2, lett. a). L’area in cui insiste l’immobile in oggetto, inquadrata nel P.R.G. attuale come “Centro Storico”, veniva infatti classificata nel P.R.G. vigente nel 1985 come “Zona agricola”, sebbene non presentasse caratteristiche differenti rispetto ad altre frazioni e centri minori, i quali invece erano qualificati dal medesimo strumento urbanistico quali “Zone territoriali omogenee di tipo A”.
Tanto è vero che, nel 1980, l’istituzione dell’obbligo di disegno dei centri storici voluto dalla Legge Regionale Veneta 80/1980 aveva portato alla redazione dell’“Atlante dei centri storici” del Veneto, nel quale compariva anche l’area in questione.
Il P.R.G. menzionato era antecedente alla L.R. 80/80; quindi chi lo aveva redatto non aveva potuto tenere in considerazione quanto riportato dall’Atlante in merito alla zona de qua. Ciò non toglie che l’Atlante del 1980 la aveva comunque descritta come area meritevole della classificazione quale “Zona A”, zona che, ai sensi dell’art. 142 comma 2 lett. a), è sottratta al vincolo paesaggistico di cui al comma precedente.
Si è quindi sostenuto che, ai fini dell’applicazione del secondo comma dell’art.142, la situazione di fatto, confermata dalla previsione dell’Atlante dei Centri Storici, dovesse prevalere su quella formale ricavabile dallo strumento urbanistico allora vigente. Tale modus operandi trova peraltro sostegno in giurisprudenza del Consiglio di Stato, che ha avuto infatti modo di affermare che “la zona territoriale omogenea è tale per definizione normativa e non per effetto dello strumento urbanistico: pertanto, in base ai parametri dell’estensione della zona ed a quelli dell’avvenuta edificazione, un’area può essere legittimamente compresa nella zona territoriale B anche ai fini dell’operatività del vincolo paesaggistico ambientale previsto dalla legge 8 agosto 1985 n. 431” (Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 1058/1992).
La seconda tesi difensiva, proposta per l’ipotesi in cui il giudice non avesse aderito al ragionamento di cui sopra, si proponeva di dimostrare che il vincolo paesaggistico dovrebbe essere comunque escluso ai sensi dell’art. 142 comma 2, lettera b).
Il P.R.G. vigente nel 1985, come si è visto, classificava formalmente l’area come “Zona E”: si trattava quindi di una zona che, all’epoca dell’entrata in vigore della Legge Galasso, aveva comunque ricevuto una classificazione da parte dello strumento urbanistico, nonostante il Comune di cui faceva parte l’area de qua non fosse tenuto a dotarsi di piani pluriennali di attuazione in considerazione dell’esiguo numero di abitanti. Infatti, ai sensi dell’art. 6 del decreto-legge del 23 gennaio 1982, n. 9, i comuni con popolazione fino a 10.000 abitanti sono esonerati dall'obbligo di dotarsi di programmi pluriennali di attuazione (il Comune in questione conta un numero di abitanti inferiore a 1.500). Il Consiglio di Stato si è espresso sul punto chiarendo che “il vincolo paesaggistico non si applica, oltre che alle zone A e B, anche a tutte le altre zone entrate a far parte, attraverso i programmi pluriennali di attuazione, della pianificazione urbanistica” e più specificatamente che “anche nei Comuni non tenuti alla redazione dei programmi pluriennali di attuazione (…) tutte le aree inserite negli strumenti urbanistici restano escluse dal vincolo paesaggistico, poiché anch’esse hanno formato oggetto di un programmato e studiato assetto del territorio, rispetto al quale le motivazioni sottese all’introduzione dei vincoli di cui all’art. 1, primo comma, del D.L. n. 312 del 1985 devono considerarsi recessive” (Cons. di Stato, Sez. V, n. 1563/1996).
Anche tramite tale ragionamento poteva quindi essere sostenuta l’esclusione dell’area in questione dal novero di quelle soggette al vincolo.
La decisione:
Nel caso in esame il Tribunale di Belluno ha sposato la seconda tesi avanzata dalla difesa, ritenendo quindi insussistente il vincolo paesaggistico ai sensi dell’art. 142 comma 2 lett. b) d.lgs. 42/2004.
Ha quindi aderito alla tesi affermata dal Consiglio di Stato nel 1996, così come aveva fatto, in un’altra occasione, lo stesso Tribunale di Belluno, sezione civile, con la sentenza n. 476/2017.
Pertanto, con la sentenza n. 879/2019, il giudice ha assolto gli imputati del reato previsto e punito dall’art. 181 del d.lgs. 42/2004 (il quale presuppone la sussistenza di un vincolo) con la formula “perché il fatto non sussiste”; ha poi dichiarato di non doversi procedere in ordine al reato previsto e punito dall’art. 44, comma 1, lett. c) D.P.R. n. 380/2001, per essersi lo stesso estinto per prescrizione (risultando i lavori conclusi già all’epoca dell’accertamento, avvenuto in data 10.06.2014).
Anche il reato paesaggistico era ormai prescritto, ma l’assoluzione pronunciata nel merito in applicazione dell’art.129 cpp - secondo il quale, pur in presenza di una causa di estinzione del reato quale è la prescrizione, quando risulta evidente che il fatto non sussiste, va pronunciata assoluzione con tale formula - ha gettato solide basi per l’ottenimento di una sanatoria in sede amministrativa, con la conseguente possibilità di mantenere il risultato dell’intervento compiuto e di evitare così l’obbligo di demolizione e remissione in pristino.