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Nell'autocertificazione si può omettere la sentenza di patteggiamento

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Non vanno indicate nelle dichiarazioni sostitutive di certificazione le sentenze penali di patteggiamento. E d’altro canto, ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo nel reato di falso in atto pubblico, occorre considerare le circostanze in cui la dichiarazione viene resa.

Per queste ragioni il Tribunale di Belluno, con sentenza n. 463 del 3.11.2020, depositata il 10.11.2020, ha assolto dal reato di falsità ideologica in atto pubblico di cui all’art. 483 c.p. tre soggetti imputati per aver falsamente attestato, in una dichiarazione sostitutiva di certificazione prodotta all’Ulss, di non aver riportato condanne penali, nonostante nei confronti di due di essi risultassero sentenze di applicazione della pena e nei confronti del terzo diverse condanne seppur di lieve entità.

Quanto alle sentenze di patteggiamento, secondo il giudice esse "non possono essere inquadrate tra le sentenze di condanna", e pertanto assolve gli imputati perché "il fatto non sussiste", con ciò spingendosi anche oltre gli approdi della giurisprudenza di legittimità, che in casi analoghi si limita ad escludere il dolo (si veda ad esempio la recente Cass., sez. V penale, n. 838 del 20.10.2020).

Quanto alle sentenze di condanna a carico del terzo imputato, il giudice, considerato da un lato che le condanne risultavano condonate o costituite da pena pecuniaria, dall’altro la scarsa chiarezza del testo della dichiarazione sottoscritta e le circostanze della firma (apposta in un momento di scarsa attenzione), concludeva per l’insussistenza del dolo, conformemente all’orientamento giurisprudenziale, di merito e legittimità, che spesso esclude l’esistenza del reato in parola quando si tratti di dichiarazioni rese su moduli prestampati (cfr ad es. Cass. sez. V penale, n. 2496 del 19.12.2019; Tribunale Terni, n. 570 del 21.5.2019; Cass., sez. V penale, n. 48604 del 24.9.2018).

 

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Abuso edilizio lungo la sponda del torrente: non sempre c'è il reato paesaggistico

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In tema di beni paesaggistici e di aree svincolate dalla disciplina prevista dal “Codice dei beni culturali e del paesaggio” (Decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42), è intervenuta un’interessante sentenza del Tribunale di Belluno (29 novembre 2019 n.879, depositata il 20/12/2019), che ha ripreso principi già affermati nella giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, Sezione V, 17 maggio 1996, n.1563) per assolvere i comproprietari di un immobile ubicato entro la fascia di 150 metri dal corso di un torrente, che vi avevano eseguito un intervento di sopraelevazione in assenza dei necessari provvedimenti autorizzatori.

I fatti:

I cinque soggetti coinvolti erano imputati dei reati previsti e puniti dagli artt. 44, comma 1 lett. c) D.P.R. 380/2001 (T.U. Edilizia) e 181 d.lgs. 42/2004 (Codice dei beni culturali e paesaggio), perché, nelle loro qualità di comproprietari, realizzavano, sull’immobile sito in zona sottoposta a vincolo paesaggistico-ambientale, interventi edilizi urbanistici in assenza del prescritto permesso di costruire o di D.I.A. ai sensi dell'articolo 22 comma 3 del D.P.R n. 380/2001, oltre che in assenza della prescritta autorizzazione paesaggistica; più precisamente demolivano totalmente e ricostruivano, sopraelevandolo, il tetto dell'edificio, trasformando il piano sottotetto da soffitta in unità abitativa. La suddetta zona rientrava, secondo l’accusa, tra quelle sottoposte a vincolo paesaggistico-ambientale, in quanto si trattava di un’area posta entro la fascia di 150 m dal corso di un torrente (area tutelata ai sensi dell’art. 142, comma 1, lett. c) del d.lgs. n. 42/2004).

La normativa di interesse:

In effetti il primo comma dell’art. 142 d.lgs. 42/2004 elenca una serie di territori e di aree di interesse paesaggistico, all’interno delle quali gli interventi edilizi ed in genere di trasformazione del territorio devono essere preceduti dalla specifica autorizzazione dell’autorità preposta alla tutela dei beni paesaggistici.
Tra queste, alla lettera c), compaiono i fiumi, i torrenti, i corsi d’acqua e le relative sponde o piedi degli argini per una fascia di 150 metri.
Dalla lettura del primo comma dell’articolo in esame la zona su cui sorge l’immobile de quo risulterebbe quindi rientrare tra le aree di interesse paesaggistico; ne deriverebbero le severissime conseguenze di seguito elencate:

  • il reato urbanistico edilizio commesso all’interno di queste aree viene punito ai sensi della lettera c) del primo comma dell’art.44 del DPR 380/2001, quella che prevede le sanzioni più pesanti (l'arresto fino a due anni e l'ammenda da 15.493 a 51.645 euro).
  • Ad esso si aggiunge l’ulteriore reato previsto dall’art.181 del Decreto Legislativo n.42 del 2004, sanzionato con la medesima pena (o addirittura più gravemente quando si tratti di interventi importanti).
  • Inoltre, quando l’intervento abusivo ha comportato un incremento di volumi o di superfici utili (come è avvenuto nel caso di cui si è occupato il Tribunale di Belluno), non è ammessa la cosiddetta sanatoria.
    Tale istituto, quando sia ammesso, comporta l’estinzione del reato edilizio-urbanistico e la non punibilità per quello paesaggistico; esso scatta, su iniziativa degli interessati, quando l’Autorita` preposta alla tutela dei beni vincolati accerti che l’autorizzazione - qualora fosse stata richiesta prima di eseguire i lavori - sarebbe stata rilasciata, in quanto i lavori medesimi non avrebbero pregiudicato i valori paesaggistici dell’area.
    Quando l’accertamento si conclude in tal modo e la cosiddetta sanatoria paesaggistica viene quindi rilasciata non vi è punizione per il reato paesaggistico e si creano i presupposti per sfuggire alla pena anche per il reato urbanistico, grazie alla cosiddetta sanatoria edilizia, ottenibile quando l’intervento abusivo sia comunque conforme alla normativa urbanistica vigente all’epoca dei fatti e all’epoca della domanda di sanatoria (cosiddetta doppia conformità).
    Come detto, però, la sanatoria paesaggistica, quando gli interventi abbiano comportato un aumento dei volumi o delle superfici utili, non è ammessa, anche se si tratti di lavori per i quali l’autorizzazione, se chiesta prima della loro realizzazione, sarebbe stata rilasciata. Le pene previste per i due reati in esame debbono quindi essere necessariamente applicate anche in questo caso.
  • Oltre alle pene sopra ricordate, la condanna per il reato paesaggistico comporta pure l’obbligo di demolizione di quanto abusivamente realizzato.

In conclusione quindi, nel caso trattato dal Tribunale di Belluno, il fatto che si trattasse di un intervento che sarebbe stato autorizzato qualora lo si fosse richiesto prima di eseguirlo non avrebbe comunque consentito di evitare la condanna alle pene sopra ricordate e al ripristino della situazione sussistente prima dei lavori, quindi all’abbassamento del tetto al livello precedente; solo successivamente i proprietari sarebbero potuti ripartire da capo, con una nuova domanda, per rifare in toto l’intervento.

Tali drammatiche conseguenze possono essere evitate quando ricorrano le condizioni di cui al secondo comma dell’art.142 che, dopo aver elencato le zone e le aree di regola soggette al vincolo paesaggistico (e tra queste le sponde dei corsi d’acqua per una fascia di 150 metri), prevede alcune situazioni in cui esse invece vi sfuggono.
Vi si legge infatti che le disposizioni di cui al comma 1 non si applicano alle aree che alla data del 6 settembre 1985 (data di entrata in vigore della legge 8 agosto 1985, n. 431, cosiddetta “Legge Galasso”):
a) erano delimitate negli strumenti urbanistici come zone territoriali omogenee A e B;
b) erano delimitate negli strumenti urbanistici come zone territoriali omogenee diverse dalle zone A e B, limitatamente alle parti di esse ricomprese in piani pluriennali di attuazione, a condizione che le relative previsioni siano state concretamente realizzate;
c) nei comuni sprovvisti di tali strumenti, ricadevano nei centri edificati perimetrati ai sensi dell’art. 18 legge 22 ottobre 1971, n. 865.

Le due tesi difensive:

La difesa è stata articolata su due argomentazioni, entrambe volte a dimostrare che la zona nella quale era stato realizzato l’abuso rientra tra quelle enunciate dall’art. 142, comma 2, d.lgs. 42/2004, per le quali non opera la normativa a tutela dei beni paesaggistici.
Secondo la prima tesi difensiva il vincolo paesaggistico non sussiste in virtù dell’art. 142, comma 2, lett. a). L’area in cui insiste l’immobile in oggetto, inquadrata nel P.R.G. attuale come “Centro Storico”, veniva infatti classificata nel P.R.G. vigente nel 1985 come “Zona agricola”, sebbene non presentasse caratteristiche differenti rispetto ad altre frazioni e centri minori, i quali invece erano qualificati dal medesimo strumento urbanistico quali “Zone territoriali omogenee di tipo A”.
Tanto è vero che, nel 1980, l’istituzione dell’obbligo di disegno dei centri storici voluto dalla Legge Regionale Veneta 80/1980 aveva portato alla redazione dell’“Atlante dei centri storici” del Veneto, nel quale compariva anche l’area in questione.
Il P.R.G. menzionato era antecedente alla L.R. 80/80; quindi chi lo aveva redatto non aveva potuto tenere in considerazione quanto riportato dall’Atlante in merito alla zona de qua. Ciò non toglie che l’Atlante del 1980 la aveva comunque descritta come area meritevole della classificazione quale “Zona A”, zona che, ai sensi dell’art. 142 comma 2 lett. a), è sottratta al vincolo paesaggistico di cui al comma precedente.
Si è quindi sostenuto che, ai fini dell’applicazione del secondo comma dell’art.142, la situazione di fatto, confermata dalla previsione dell’Atlante dei Centri Storici, dovesse prevalere su quella formale ricavabile dallo strumento urbanistico allora vigente. Tale modus operandi trova peraltro sostegno in giurisprudenza del Consiglio di Stato, che ha avuto infatti modo di affermare che “la zona territoriale omogenea è tale per definizione normativa e non per effetto dello strumento urbanistico: pertanto, in base ai parametri dell’estensione della zona ed a quelli dell’avvenuta edificazione, un’area può essere legittimamente compresa nella zona territoriale B anche ai fini dell’operatività del vincolo paesaggistico ambientale previsto dalla legge 8 agosto 1985 n. 431” (Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 1058/1992).
La seconda tesi difensiva, proposta per l’ipotesi in cui il giudice non avesse aderito al ragionamento di cui sopra, si proponeva di dimostrare che il vincolo paesaggistico dovrebbe essere comunque escluso ai sensi dell’art. 142 comma 2, lettera b).
Il P.R.G. vigente nel 1985, come si è visto, classificava formalmente l’area come “Zona E”: si trattava quindi di una zona che, all’epoca dell’entrata in vigore della Legge Galasso, aveva comunque ricevuto una classificazione da parte dello strumento urbanistico, nonostante il Comune di cui faceva parte l’area de qua non fosse tenuto a dotarsi di piani pluriennali di attuazione in considerazione dell’esiguo numero di abitanti. Infatti, ai sensi dell’art. 6 del decreto-legge del 23 gennaio 1982, n. 9, i comuni con popolazione fino a 10.000 abitanti sono esonerati dall'obbligo di dotarsi di programmi pluriennali di attuazione (il Comune in questione conta un numero di abitanti inferiore a 1.500). Il Consiglio di Stato si è espresso sul punto chiarendo che “il vincolo paesaggistico non si applica, oltre che alle zone A e B, anche a tutte le altre zone entrate a far parte, attraverso i programmi pluriennali di attuazione, della pianificazione urbanistica” e più specificatamente che “anche nei Comuni non tenuti alla redazione dei programmi pluriennali di attuazione (…) tutte le aree inserite negli strumenti urbanistici restano escluse dal vincolo paesaggistico, poiché anch’esse hanno formato oggetto di un programmato e studiato assetto del territorio, rispetto al quale le motivazioni sottese all’introduzione dei vincoli di cui all’art. 1, primo comma, del D.L. n. 312 del 1985 devono considerarsi recessive” (Cons. di Stato, Sez. V, n. 1563/1996).
Anche tramite tale ragionamento poteva quindi essere sostenuta l’esclusione dell’area in questione dal novero di quelle soggette al vincolo.

La decisione:

Nel caso in esame il Tribunale di Belluno ha sposato la seconda tesi avanzata dalla difesa, ritenendo quindi insussistente il vincolo paesaggistico ai sensi dell’art. 142 comma 2 lett. b) d.lgs. 42/2004.
Ha quindi aderito alla tesi affermata dal Consiglio di Stato nel 1996, così come aveva fatto, in un’altra occasione, lo stesso Tribunale di Belluno, sezione civile, con la sentenza n. 476/2017.
Pertanto, con la sentenza n. 879/2019, il giudice ha assolto gli imputati del reato previsto e punito dall’art. 181 del d.lgs. 42/2004 (il quale presuppone la sussistenza di un vincolo) con la formula “perché il fatto non sussiste; ha poi dichiarato di non doversi procedere in ordine al reato previsto e punito dall’art. 44, comma 1, lett. c) D.P.R. n. 380/2001, per essersi lo stesso estinto per prescrizione (risultando i lavori conclusi già all’epoca dell’accertamento, avvenuto in data 10.06.2014).
Anche il reato paesaggistico era ormai prescritto, ma l’assoluzione pronunciata nel merito in applicazione dell’art.129 cpp - secondo il quale, pur in presenza di una causa di estinzione del reato quale è la prescrizione, quando risulta evidente che il fatto non sussiste, va pronunciata assoluzione con tale formula - ha gettato solide basi per l’ottenimento di una sanatoria in sede amministrativa, con la conseguente possibilità di mantenere il risultato dell’intervento compiuto e di evitare così l’obbligo di demolizione e remissione in pristino.

 

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Infortunio sul lavoro: due sentenze a confronto

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Interessante porre a confronto un recente intervento della Corte di Cassazione (Sezione Terza Penale 25 maggio - 6 novembre 2018, n. 50000), con una sentenza di poco precedente del Tribunale di Belluno (Sezione Penale 25/9/2017-27/12/2017 n.531); in entrambi i casi si tratta di responsabilità penale del datore di lavoro (o del suo delegato) per l’infortunio di un dipendente che aveva tenuto una condotta colpevole, avendo violato le norme cautelari volte ad evitare i rischi di infortuni. Nel primo caso l’imputato è stato condannato e nel secondo assolto.

Un confronto tra le due motivazioni risulta quindi molto utile per cogliere quali siano per i giudici gli aspetti decisivi in queste situazioni.

I fatti in estrema sintesi

Caso esaminato dalla Corte di Cassazione: il lavoratore si era procurato una grave ustione per essere entrato in contatto con un forno, rischio che sarebbe stato evitato qualora egli avesse utilizzato, per compiere il lavoro richiestogli, una passerella, così come gli era stato detto di fare.

Caso esaminato dal Tribunale di Belluno: il lavoratore era stato colpito da una benna appesa alle forche di un muletto, dopo che egli, stando in fondo alle forche medesime, aveva tirato verso di sé la leva annessa alla benna stessa, affinchè se ne aprisse il fondo e ne potesse uscire il materiale ivi contenuto. La benna lo aveva tuttavia colpito dopo essersi sfilata, a causa della trazione, dalle anzidette forche, tenute inclinate verso il basso sebbene nei corsi di utilizzo dei muletti, regolarmente frequentati dal dipendente, fosse stato insegnato che esse vanno tenute rivolte verso l’alto.

I principi operanti nei casi di questo tipo

Con costanza la giurisprudenza afferma che, perché possa essere esclusa la responsabilità del datore di lavoro, non è sufficiente che il lavoratore infortunatosi abbia violato regole che avrebbe invece dovuto rispettare; detta responsabilità può infatti essere esclusa solo quando il comportamento del lavoratore, oltre che non rispettoso delle norme cautelari, risulti abnorme, eccezionale o comunque esorbitante rispetto al procedimento lavorativo e alle precise direttive ricevute, connotandosi come del tutto imprevedibile o inopinabile.

È evidente che tale principio sposta il fulcro delle decisioni dei giudici sulla qualificabilità delle condotte - nelle situazioni concrete - come “abnormi”, “eccezionali”, “imprevedibili”, “inopinabili”.

Le due decisioni

La Suprema Corte ha confermato la condanna del delegato del datore di lavoro alla sicurezza e igiene sul lavoro e alla prevenzione degli infortuni e incendi, rilevando che il comportamento del dipendente non poteva considerarsi eccezionale o abnorme, stanti la sua inesperienza, lo svolgimento di una prova a freddo solo parziale della lavorazione e le caratteristiche della passerella, molto pesante rispetto alla corporatura della persona offesa ed il cui posizionamento avrebbe rallentato la lavorazione.

Il Tribunale di Belluno ha invece pronunciato sentenza di assoluzione, attribuendo decisivo rilievo in particolare alla documentazione attestante che il lavoratore aveva seguito i corsi periodici sull’utilizzo dei muletti, superando anche i test di apprendimento finali.

In entrambe le vicende, quindi, non era stata prevista una specifica vigilanza sull’osservanza delle regole cautelari da parte dei dipendenti, che tuttavia avevano in precedenza ricevuto le direttive necessarie ad evitare i rischi che si sono poi concretizzati determinando gli incidenti. Nel primo caso tale circostanza non è stata ritenuta sufficiente ad escludere la responsabilità del delegato del datore di lavoro, nel secondo sì.

Il Tribunale di Belluno è giunto alla decisione dopo aver dichiarato espressamente di aderire alla tesi, affermata in più occasioni anche dalla stessa Corte di Cassazione, secondo la quale il sistema della normativa antinfortunistica si è trasformato da un modello iperprotettivo, interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro, investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori, a un modello collaborativo, in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi gli stessi lavoratori, in cui l’obbligo di vigilanza non è più assoluto; pertanto il datore di lavoro che abbia fornito tutti i mezzi idonei alla prevenzione e abbia adempiuto a tutte le obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia, non risponderà dell’evento derivato da una condotta imprevedibilmente colposa del lavoratore (Quarta Sezione Penale n.8883 del 10/2/2016 e n.39882 del 1/10/2008).
In definitiva quindi, per il Tribunale Bellunese il grado di esperienza del dipendente e la grossolanità del suo errore, commesso nonostante sul punto fosse stato specificamente addestrato, avevano reso per l’imputato imprevedibile la violazione da parte sua delle regole cautelari.

Nella circostanza giunta all’attenzione della Suprema Corte, invece, tale imprevedibilità non è stata ravvisata, in considerazione della mancanza di esperienza del lavoratore nella specifica mansione (mai svolta prima sotto un controllo diretto) e nella presenza di ostacoli alla concreta adozione della cautela richiesta, che avrebbero dovuto far considerare che egli avrebbe potuto ometterla.

 

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